Giovanni Mori è ingegnere ambientale ed energetico, attivista di Friday for Future Italia e portavoce della sezione di Brescia nel movimento, nonché consulente a Save The Planet per il progetto Città Sostenibili. Con lui mi sono inserito nella discussione sull’uso dei fondi europei per la ripartenza economica post Covid-19. Inoltre è stata l’occasione di capire come l’opinione pubblica sta adesso influenzando la classe politica internazionale e locale sui temi della riduzione delle emissioni di CO2.
Ovviamente anche nel movimento c’è attenzione sul tema perché è un’occasione gigante. Il fatto che l’UE avesse già lanciato nel 2019 il Green New Deal permette di discutere su almeno il 37% di questi fondi che dovranno andare in quella direzione. Economia, lavoro e ambiente non sono temi separati, quindi il clima è un fil rouge, una chiave di lettura trasversale.
La sfida vera sarà capire quanti di questi fondi finanzieranno progetti realmente “green” e se altri addirittura non abbiano effetti negativi, altrimenti si capisce bene che è controproducente.
Per il rilancio dell’economia post Covid-19 verranno spesi 10 mila miliardi di dollari a livello mondiale. Dal momento che l’emergenza sanitaria ha posto il problema della tutela degli ecosistemi, per prevenire il passaggio di nuovi virus tra le specie viventi fino all’uomo, il rischio più grosso non è fare poco o male, ma fare finta di fare, con il rischio di perdere la pressione pubblica sul tema che siamo riusciti a creare negli ultimi anni.
Per essere chiari, anche l’aumento del target europeo di taglio delle immissioni di CO2 dal 40 al 55% al 2030 è sicuramente un ottimo passo avanti ma non è ancora sufficiente. L’obiettivo del 40% – già presente anche prima come target comunitario – pur tra i più alti a livello mondiale, era però basso per la comunità scientifica che si basa sul carbon budget. Il carbon budget indica quanta CO2 ancora possiamo emettere in atmosfera per non superare la fatidica soglia degli 1,5° gradi di aumento della temperatura terreste, oltre la quale i cambiamenti climatici sarebbero irreversibili. Le stime variano, ma si tratta di circa 300 giga tonnellate di CO2 che a questo ritmo esauriremo entro il 2027/28 – per dare dei numeri.
Il 1990 è convenzionale perché è il primo anno in cui sono stati presi accordi di riduzione. Anche i vecchi accordi di riduzione del 20% al 2020 erano calcolati su quella base-line e così i nuovi obiettivi al 2030 e al 2050 sono stati fatti ancora così. Ma appunto bisogna stare molto attenti sui numeri, sulle date e sulle percentuali: si riduce di quanto, entro quando e rispetto a quando? Queste sono le domande chiave. Il target dell’UE del 55% era un risultato impensabile fino a qualche anno fa, in questo i movimenti per il clima hanno fatto pressione. Tuttavia, per onestà scientifica, dovremmo arrivare all’80% di riduzione per avere buone chance di rimanere sotto gli 1,5% gradi di temperatura.
Nell’accordo di Parigi si parla di contenimento “ben al di sotto di 2 gradi”, ma da 1,5 a 2 gradi di aumento c’è tanta differenza, ovvero raddoppio degli eventi estremi e una velocità di scioglimento dei ghiacciai esponenziale.
Il tema della giustizia climatica si trova anche nel fondo europeo Just Transition Mechanism, perché la transizione deve essere equa. I paesi maggior emittenti di emissioni di CO2 – dall’Inghilterra patria della Rivoluzione industriale agli USA – hanno più responsabilità a devono ridurre prima la loro impronta.
In paesi tecnologicamente avanzati è più semplice ridurre l’emissione di una tonnellata di CO2, rispetto a un paese povero dove è difficile produrre anche la corrente elettrica. Questo è il tema spinoso che rende i negoziati sul clima molto complessi, è difficile dire a Cina e India di non inquinare quando l’Occidente lo ha fatto per 150 anni.
Infatti la forza dell’Unione Europea è quella di essere il primo mercato del mondo, non certo per il numero di popolazione o la quantità di emissioni che hanno un’incidenza globale tra il 12 e il 14%. Chi vuole fare accordi commerciali con l’UE può essere costretto a sottostare ai nostri standard per commercializzare nello spazio comunitario. Questa è un’arma di pressione anche verso il comportamento criminale di Bolsonaro in Brasile sull’Amazzonia.
Adesso di clima se ne parla ai meeting aziendali come ai vertici politici, ma se mi chiedi se di fronte a una coscienza più diffusa del problema qualcuno ha ridotto le emissioni, ti dico no! Tuttavia il movimento ha attivato milioni di persone che adesso sanno che c’è un problema e si informano.
Il nostro Parlamento è composto da politici eletti nel 2018, ma allora questa spinta dal basso dell’opinione pubblica sul tema ambientale non c’era, quindi non abbiamo dei rappresentanti nelle istituzioni appositamente lì con questo mandato. La vera sfida sarà far capire alla classe politica che questo è un interesse trasversale della cittadinanza e potrebbe spostare migliaia di voti, come è accaduto nelle recenti elezioni americane a favore di Biden.
Intervista a cura di Francesco Sani
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